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Gli effetti della rinuncia abdicativa sulle occupazioni senza titolo della PA – Commento alla Adunanza Plenaria 2/2020

di Sabrina Calatroni

Il procedimento di espropriazione. L’art. 42 della Costituzione al comma 3 stabilisce che la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. Il precetto di tale norma viene declinato in concreto dal testo unico in materia di espropriazioni, il D.P.R. n. 327/2001, il quale disciplina l’oggetto e l’ambito di applicazione (i.e. i beni immobili o i diritti relativi ad immobili) del procedimento per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, regolandone le relative fasi. Precisamente, l’iter amministrativo viene suddiviso in:

  • approvazione definitiva del progetto che definisce l’opera pubblica o di pubblica utilità con apposita individuazione dell’opera nello strumento urbanistico generale ed apposizione alla medesima di un vincolo preordinato all’esproprio;
  • dichiarazione di pubblica utilità del bene mediante l’adozione di apposito provvedimento dell’Amministrazione;
  • emanazione entro il termine di scadenza dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità del decreto di esproprio, contenente anche l’indicazione dell’indennità di esproprio spettante al privato.

Le occupazioni senza titolo. Tuttavia nella prassi si verifica talvolta che – pur in assenza dei necessari provvedimenti – le Amministrazioni occupino e utilizzino un bene privato fino a trasformarlo irreversibilmente per soddisfare esigenze di interesse pubblico. Tali sono le cd. occupazioni sine titulo, in relazione alle quali ci si è domandati quali siano le misure di tutela spettanti al proprietario del suolo occupato senza titolo e sul quale sia stata realizzata un’opera pubblica.

La giurisprudenza più recente ha risolto i contrasti interpretativi e ridefinito la disciplina delle occupazioni senza titolo, così come originariamente delineata dalla giurisprudenza degli anni ’80. In particolare:

  • ha eliminato pressoché in toto la distinzione tra occupazioni appropriative (i.e. che presuppongono la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da realizzare sul fondo di proprietà privata e si perfezionano allorchè l’opera stessa venga realizzata dall’Amministrazione in assenza del relativo valido ed efficace decreto di esproprio) ed occupazioni usurpative (i.e. in mancanza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità oppure qualora la dichiarazione di pubblica utilità sia stata impugnata e successivamente annullata dal giudice amministrativo);
  • ha qualificato le fattispecie di occupazioni sine titulo come illeciti permanenti della Pubblica Amministrazione. Tale impostazione aderisce ai principi della CEDU, secondo cui un comportamento illecito della Pubblica Amministrazione non può costituire un mezzo di acquisto ex post della titolarità di un bene ad effetto sanante (mediante la cd. accessione invertita), ma spetta all’ordinamento interno individuare i mezzi per l’acquisizione della proprietà di un bene illegittimamente occupato. Conseguentemente, il legislatore ha introdotto all’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 lo strumento dell’acquisizione sanante (dapprima, nel 2003, aveva disciplinato l’istituto all’art. 43, poi dichiarato incostituzionale nel 2010)[1]. Tale norma prevede che l’Amministrazione, previa valutazione degli interessi in gioco, adotti un provvedimento volto alternativamente all’acquisizione del bene al suo patrimonio o alla sua restituzione al privato. In tale ottica, il provvedimento di acquisizione ad oggi non è più “automatico”, ma deve – quale extrema ratio – necessariamente essere motivato in ragione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico attuabili esclusivamente attraverso il mantenimento dell’opera realizzata sine titulo. Diversamente, il bene dovrà essere restituito al privato illegittimamente espropriato.

Nonostante gli approdi raggiunti, i giudici amministrativi hanno – da ultimo – sollevato una questione circa la rilevanza giuridica che può assumere la domanda di risarcimento proposta dal soggetto privato “illegittimamente espropriato”, interrogandosi sulla possibilità di qualificare tale domanda come rinuncia abdicativa.

La questione è stata rimessa dalla sezione IV del Consiglio di Stato all’Adunanza Plenaria, la quale ha statuito con sentenza n. 2 del 20 gennaio 2020.

I fatti della Adunanza Plenaria n. 2/2020. L’Amministrazione “espropriante” approvava con decreto il progetto per la realizzazione di un’opera pubblica, fissando al contempo i termini per la realizzazione dei lavori e per l’emanazione del decreto di esproprio. Tuttavia, mentre il Consiglio di Stato annullava con sentenza il suddetto decreto, il suolo di proprietà privata veniva irreversibilmente trasformato, in assenza di decreto di esproprio, mediante la realizzazione dell’opera pubblica.

Il privato proprietario del suolo ricorreva quindi al TAR per il risarcimento del danno in conseguenza della illecita apprensione del bene, essendo oramai divenuta impossibile la restituzione del suolo. I giudici di primo grado, ravvisando nel caso in esame una ipotesi di occupazione acquisitiva, ovvero un fatto illecito che si perfeziona a partire dal momento in cui il possesso del suolo di proprietà del ricorrente deve essere considerato sine titulo, hanno accolto l’eccezione di prescrizione del diritto del ricorrente al risarcimento del danno. Di conseguenza, il privato ha proposto appello (i) contestando l’intervenuta prescrizione in quanto il fatto illecito ha carattere permanente e (ii) insistendo per il risarcimento del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà (acquisito a titolo originario dalla PA).

Con sentenza parziale n. 5391/2019, il Consiglio di Stato, sezione IV:

  • ha dapprima statuito che, data la natura permanente dell’illecito commesso dall’Amministrazione, non fosse decorso il termine di prescrizione di cinque anni, ritenuto erroneamente applicabile dal TAR;
  • in applicazione dell’art. 42-bis D.P.R. 327/2001, il giudice amministrativo avrebbe dovuto ordinare all’autorità che utilizza a fini pubblici il bene privato di emanare un provvedimento che disponesse o l’acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile o la sua restituzione.

La questione giuridica. Il Collegio ha, tuttavia, ritenuto di trattare preliminarmente due ulteriori questioni che ha quindi rimesso all’esame dell’Adunanza Plenaria:

1) se la domanda risarcitoria degli appellanti vada qualificata come dichiarazione di rinuncia abdicativa del bene;

2) se tale rinuncia abbia rilevanza giuridica.

Innanzitutto, occorre definire cosa è la cd. “rinuncia abdicativa”. Essa rappresenta quel negozio giuridico unilaterale non recettizio con il quale il soggetto rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette o abdica o perde una situazione giuridica di cui è titolare, escludendo un diritto di cui è titolare senza che ciò comporti un trasferimento del diritto in capo ad altri né automatica estinzione dello stesso.

Quindi, gli ulteriori effetti estintivi o modificativi del rapporto che possono anche incidere sui terzi sono solo conseguenze riflesse del negozio e la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia traslativa proprio per la mancanza del carattere traslativo e della natura contrattuale. Di conseguenza, la rinuncia abdicativa si perfeziona a prescindere dalla accettazione del terzo o dalla notificazione al medesimo.

Ma come si declina tale istituto nella materia dell’espropriazione? Si può ravvisare una ipotesi di rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A. in seguito all’irreversibile trasformazione del fondo?

I principi di diritto affermati. Ebbene, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis D.P.R. 327/2001, non sia possibile utilizzare l’istituto della rinuncia abdicativa dal momento che la volontà di richiedere il risarcimento del danno non implica quella di abdicare al diritto di proprietà privata.

Tale statuizione muove in primo luogo dal presupposto per cui da una domanda di risarcimento del danno non si può univocamente desumere la rinuncia del privato al bene. Tramite domanda di risarcimento infatti il privato richiede la riparazione dall’illecito subìto a fronte di una pluralità di strumenti offerti dall’ordinamento.

In secondo luogo, sebbene tale obiezione abbia soltanto carattere formale, il Collegio ricorda che la domanda di risarcimento è proposta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che, come tale, è l’unico soggetto legittimato ad abdicare al proprio diritto di proprietà sul bene immobile.

In terzo luogo, e tale motivo ha carattere assorbente, la rinuncia abdicativa non può operare quale strumento di definizione dell’assetto degli interessi coinvolti in una vicenda di espropriazione cd. indiretta, in quanto non rappresenta né una delle modalità di acquisto della proprietà previste dalla legge, né una delle ipotesi al ricorrere delle quali è ammessa l’espropriazione (a mente dell’art. 42, co. 2 e 3 Cost., infatti, la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge e può essere “nei casi preveduti dalla legge” e “salvo indennizzo espropriata per motivi di interesse generale”).

Se così fosse, la rinuncia abdicativa finirebbe per presentare gli stessi problemi e dubbi interpretativi già superati dalla giurisprudenza in tema di occupazione acquisitiva o appropriativa.

Ed infatti, l’istituto della occupazione appropriativa o acquisitiva, elaborato dalla giurisprudenza a partire dalla sentenza Cass. Civ. n. 1464/1983, come modalità di acquisto della proprietà del fondo a favore della Pubblica Amministrazione per “accessione invertita” (in quanto all’irreversibile trasformazione dell’area conseguiva l’apprensione da parte della P.A. sia dell’opera pubblica realizzata sia del fondo di proprietà privata su cui la medesima insisteva) è stato escluso dal nostro ordinamento giuridico sia come titolo di acquisto sia quale modo di trasferimento della proprietà perché lesivo del principio di legalità ed in contrasto con i  principi affermati dalla CEDU.

Ad oggi, infatti, la mera realizzazione di un’opera pubblica su suolo illegittimamente occupato non assurge a titolo di acquisto della proprietà, né ne determina il trasferimento. Invero, dall’esame dell’art. 42-bis, introdotto per risolvere i suddetti contrasti, si desume che

  • l’occupazione sine titulo assume il carattere di illecito permanente
  • l’occupazione sine titulo obbliga l’Amministrazione, dopo aver valutato con procedimento d’ufficio gli interessi in conflitto, ad adottare un provvedimento conclusivo del procedimento con cui essa sceglie se acquisire il bene o restituirlo al privato al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto, secondo il procedimento dettato dalla stessa disposizione
  • il potere-dovere di esercitare la funzione amministrativa di decidere la sorte del bene espropriato, in ottemperanza ai principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione (ex art. 97 Cost), è attribuito esclusivamente all’Autorità “espropriante”.

Ebbene, posto che la scelta di acquisizione del bene o della sua restituzione va effettuata esclusivamente dall’autorità né il giudice né il proprietario possono sostituirsi alla P.A. in tali valutazioni. Da ciò, si può ricavare che il soggetto espropriato non ha diritto di attribuire la proprietà del bene illegittimamente occupato all’Amministrazione (mediante rinuncia abdicativa per esempio) e che il giudice non può sostituirsi all’Autorità nel compiere tale discrezionale valutazione (può intervenire solo in caso di inerzia ex art. 117 c.p.a. nominando un commissario ad acta).

Al pari delle altre domande che contestino la validità della procedura, la domanda risarcitoria consiste nell’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto dall’Amministrazione e nella scelta del conseguente rimedio tra quelli previsti dalla legge speciale. Il trasferimento del bene in capo all’Amministrazione comporta l’adozione di un provvedimento e la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10%; diversamente, l’Amministrazione può valutare di procedere alla restituzione del bene previa riduzione in pristino. Resta salvo in ogni caso il risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima.

In conclusione, l’illecito permanente dell’Autorità viene meno solo nei casi specificatamente previsti dall’art. 42-bis D.P.R. 327/2001, ossia la restituzione del bene al privato ovvero l’acquisizione dello stesso tramite emissione del provvedimento di acquisizione sanante con contestuale risarcimento del danno. Residua in ogni caso la possibilità per il privato e la PA di concludere un contratto di natura transattiva traslativo della proprietà del bene. In nessun caso invece, la proposizione da parte del privato di un’azione di risarcimento danno può integrare una rinuncia abdicativa del diritto di proprietà sul bene.

[1] Nel dettaglio, mentre l’art. 43 D.P.R. 327/2001 stabiliva che l’Amministrazione che utilizzava un bene immobile per scopi di pubblico interesse senza un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità potesse acquisire tale bene nel suo patrimonio indisponibile con efficacia retroattiva e che al proprietario venisse corrisposto un risarcimento danni; l’art. 42-bis del medesimo D.P.R. prevede oggi che l’acquisto della proprietà decorra ex nunc e che al privato spetti, oltre che un indennizzo (commisurato facendo riferimento al valore dell’immobile al momento dell’acquisizione e non al suo valore originario), un ristoro in misura forfetaria per il pregiudizio non patrimoniale e un risarcimento danni per il periodo di occupazione del bene senza titolo.