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Incostituzionale l’indeducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali

Pubblichiamo di seguito l’articolo di Carlotta Benigni e Flavio Paccagnella pubblicato su Il Sole 24 Ore lo scorso 8 febbraio.

La pronuncia con cui la Consulta ha ritenuto incostituzionale l’indeducibilità dell’Imu dal reddito di impresa (sentenza n. 262/2020, relatore Antonini) ha lasciato con l’amaro in bocca più di un osservatore, perché la questione era stata sollevata in riferimento alla formulazione della norma in vigore nel solo 2012 (dal 2013 in poi è infatti stata introdotta una deducibilità parziale). I principi contenuti nella sentenza, tuttavia, non sembrano chiudere del tutto la porta a eventuali richieste di rimborso anche per annualità successive.

La Corte costituzionale ha motivato la propria decisione sulla base della violazione dei principi di ragionevolezza e capacità contributiva (articoli 3 e 53 della Costituzione) a seguito della questione di legittimità sollevata dalla Ctp di Milano (n. 2689/2019 Pres. Bricchetti, Rel. Nicolardi) in relazione all’articolo 14 del Dlgs 23/2011, che stabiliva l’indeducibilità integrale dell’Imu dalle imposte sui redditi.

La Ctp ha sollevato la questione rilevando come l’indeducibilità dell’Imu sugli immobili strumentali comportasse la tassazione di una componente di costo (che quindi reddito non è) certo e inerente, peraltro sostenuto per il pagamento di altra imposta (doppia tassazione). Inoltre, ha rilevato la discriminazione tra l’impresa che usa immobili strumentali di sua proprietà (“fiscalmente” penalizzata) e quella che usa immobili non propri (che può dedurre integralmente il costo). L’avvocatura dello Stato ha invece insistito sulla conformità costituzionale della norma, rivendicando la discrezionalità del legislatore nel modulare il carico fiscale.

I rilievi e le conseguenze

La Consulta ha accolto i rilievi di incostituzionalità prospettati: se è vero infatti che il legislatore è libero di modulare il carico fiscale per esigenze di gettito, deve farlo rispettando i principi istitutivi del tributo (in questo caso, il principio della tassazione al netto). In altri termini, se l’obiettivo era aumentare la pressione fiscale, il legislatore avrebbe dovuto farlo in modo trasparente e rispettando il principio di uguaglianza, cioè aumentando l’aliquota dell’imposta e non intervenendo sulla deducibilità a danno solo di alcuni contribuenti.

Le previsioni di indeducibilità parziale e/o forfettaria sono giustificabili se finalizzate a evitare deduzioni di spese di dubbia inerenza, ridurre costi di accertamento o prevenire fenomeni di elusione o evasione. Esigenze assenti nel caso in esame, perché i costi per il pagamento dell’imposta sono certi e gli immobili sono beni non occultabili.

La Corte ha quindi cassato la previsione relativa al 2012 ma ha rifiutato di pronunciare l’illegittimità “consequenziale” anche delle previsioni di indeducibilità parziale post-2012, in quanto il legislatore si sarebbe «gradualmente corretto» prendendo atto di esigenze di equilibrio di bilancio fino ad arrivare alla deducibilità integrale dal 2022 (disposizione, quest’ultima, definita «virtuosa» e «non più procrastinabile»).

Il riflesso sugli anni post-2012

A ben vedere, nonostante la Consulta faccia trasparire l’intenzione di fare salve le previsioni di deducibilità parziale relative agli anni successivi, quest’ultimo passaggio mantiene profili di ambiguità e non costituisce un decisum (tecnicamente, varrebbe solo a escludere l’obbligo della Corte di pronunciarsi in via consequenziale su norme che non erano oggetto di impugnazione).

Invero, anche per gli anni successivi rimangono le stesse criticità e gli stessi identici profili di illegittimità valorizzati dalla Corte. Peraltro, dal 2014 al 2019 la deducibilità era solamente del 20% ed è stata sensibilmente innalzata solo di recente – da ultimo con la legge 160/2020 (di Bilancio 2021) – al 50% per il 2019, al 60% fino al 2021, al 100% solo dal 2022.

Considerando inoltre che la pronuncia non ha riguardato l’indeducibilità ai fini Irap, rimangono senz’altro dei profili aperti che non sono stati oggetto di decisione. E non sarebbe azzardato provare a chiedere il rimborso dell’imposte sui redditi per gli anni ancora aperti (il termine per richiederlo è di 48 mesi dalla data di versamento) ed eventualmente instaurare un contenzioso al fine di sollevare la questione di costituzionalità.