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Opere di nuova costruzione e manufatti precari: il punto della Cassazione Penale

di Davide Rancati

Le opere precarie sono quelle che, per loro stessa natura e destinazione, non comportano effetti permanenti e definitivi sull’originario assetto del territorio tali da necessitare il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.

È questo il principio della recente pronuncia n. 24149 dei Giudici della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, pubblicata lo scorso 30 maggio, utile punto di riferimento per gli operatori del settore, che sono sempre chiamati a interpretare il controverso rapporto fra precarietà del manufatto/nuova costruzione e relativo titolo edilizio nei casi concreti che affrontano nella prassi quotidiana.

I fatti. Il Collegio della Suprema Corte è stato chiamato a pronunciarsi su un ricorso azionato contro la decisione della Corte di Appello di Lecce che, a sua volta, ha confermato la pronuncia del Tribunale di Brindisi avente ad oggetto il riconoscimento della responsabilità penale in capo al ricorrente in ordine ai seguenti reati:

  • codice della navigazione: art. 55 (realizzazione di nuove opere in prossimità del demanio marittimo) e art. 1161 (abusiva occupazione di spazio demaniale e inosservanza di limiti alla proprietà privata);
  • P.R. 380/2001: art. 44 (esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso di costruire);
  • lgs. 42/2004: art. 181 (opere eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa).

L’imputato, infatti, aveva realizzato, in zona demaniale marittima e gravata da vincolo paesaggistico – in quanto ricompresa nella fascia di 300 metri dalle linee di battigia – una struttura pressostatica delle dimensioni di 100 mq, in elementi metallici e copertura in PVC, con tanto di pavimentazione in pietra leccese. Il tutto in assenza dei prescritti titoli abilitativi, ritenendo che, data la sua composizione, si trattasse di un’opera da considerare appartenente all’edilizia libera non sottoposta ad alcun vincolo.

Con un unico motivo di ricorso, allora, la difesa ha insistito nel sostenere che la predetta struttura non avrebbe avuto bisogno di permesso di costruire, in quanto precaria ed amovibile.

Tale tesi non è stata accolta dai Giudici del Palazzaccio, che, prendendo atto delle caratteristiche del manufatto (stabilmente infisso al suolo e dotato di pavimentazione circoscritta da un muretto di contenimento), hanno ritenuto che la dedotta precarietà dell’opera fosse del tutto inesistente.

Interventi soggetti a permesso di costruire. Al fine di ricomporre l’inquadramento normativo della vicenda, la sentenza individua fin da subito quali siano i lavori che necessitano di un titolo abilitativo rilasciato dall’Amministrazione. Il riferimento va allora all’art. 10, lett. a) del d.P.R. 380/2001 che individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, definiti dall’art. 3 lett. e) del T.U. Edilizia come quelli che riguardano una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie residuali degli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia. Lavori che, come noto, sono subordinati al regime semplificato della presentazione della CILA (comunicazione di inizio lavori asseverata) (art. 6bis T.U. Edilizia) o della SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) (art. 22 T.U. Edilizia).

A tal proposito, per facilitare tanto l’interprete quanto il costruttore nel riconoscimento di quali possano essere gli interventi non rientranti nelle predette categorie, è stato lo stesso Legislatore, nel T.U. Edilizia, ad elencare, in modo esemplificativo e non tassativo (vedasi lista e.1-e.7 dell’art. 3, comma 1) – le opere che potrebbero considerarsi come di nuova costruzione, fra cui vale la pena menzionare: la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma esistente; gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal Comune;  la realizzazione di infrastrutture e di impianti o di depositi di merci o materiali.

Da tale elenco, ricavato essenzialmente dalla casistica giurisprudenziale, a cui vanno aggiunte le ipotesi individuate singolarmente dalle disposizioni regionali, la Corte di Cassazione, sposando un orientamento ormai consolidato, ha ribadito che sono soggetti a permesso di costruire, dunque, tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (fra le altre pronunce, vedasi Corte Cassazione, sez. III penale, 15.11.2016, n. 1308 e sez. III penale, 13.11.2014, n. 4916).

In questa tipologia di lavori, rientrano anche quelli che più possono avvicinarsi alla fattispecie delle opere precarie, ma che, comunque, non ne detengono le caratteristiche per essere stimate come tali. Il richiamo va alle opere di cui all’art. 3 alla lettera e.5) del d.P.R. 380/2001, che indica, come interventi di nuova costruzione, proprio “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, con la sola eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno di turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico“.

Come evidenziato dai Giudici Supremi, anche in questo caso la ratio della norma, la quale va a specificare il principio più generale sopra espresso, è manifesta: vanno considerati come lavori di nuova costruzione, dunque sottoposti al rilascio del permesso di costruire, tutte le strutture che sono destinate ad una stabile e non meramente temporanea utilizzazione.

Per avere una costruzione urbanistica, allora, non è necessaria la incorporazione nel suolo (requisito necessario, invece, per la sua identificazione come bene immobile ai sensi dell’art. 812 c.c.) o la presenza di opere murarie o di altro genere, bensì la destinazione del bene ad essere utilizzato come bene immobile.

E ciò apre inevitabilmente il campo anche a fattispecie che non sono elencate al predetto articolo 3, lett. e) ma che comunque sono dotate di siffatta peculiarità, il cui onere di rilevarla grava in capo costruttore nel momento in cui intende dare avvio all’iter amministrativo per la realizzazione di un progetto edilizio.

Una massima, quella espressa dalla Terza Sezione, che ha trovato una comunione di vedute non solo all’interno della giustizia ordinaria, ma anche negli ambienti delle corti amministrative: a titolo dimostrativo, si ricordano i riscontri forniti dal Consiglio di Stato quando, con sentenza n. 2842/2014, ha specificato come i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, necessitano di permesso di costruire poiché vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con relativo incremento del carico urbanistico, nonostante la loro precarietà strutturale, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie.

Sul concetto di precarietà. Dopo aver inquadrato in questi termini la questione, la sentenza in esame ha permesso, allora, ai Giudici di Cassazione di riesaminare il concetto stesso di “interventi edilizi precari”, più volte individuati dalla giurisprudenza di settore e oggi espressamente menzionati all’art. 6, comma 1, lett. e-bis) del d.P.R. 380/2001 (“opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all’amministrazione comunale”), ribadendo che è precario l’intervento che, per sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti permanenti e definitivi sull’originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.

Ma, allora, nel concreto, come si desume la natura di tale precarietà? Oltre al dettato normativo, a quali indicatori può rifarsi l’operatore per comprendere se l’intervento da realizzare richiede o meno il permesso di costruire? Le linee guida dettate dalla pronuncia n. 24149/2019 forniscono un importante sostegno agli utenti perché specificano che la precarietà (i) non può essere desunta:

  • dalla temporaneità della destinazione soggettiva data dall’utilizzatore all’opera;
  • dalle caratteristiche costruttive, dai materiali utilizzati e dalla comodità nel rimuovere l’opera, in quanto caratteristiche del tutto irrilevanti poiché la stabilità non va confusa con l’irrevocabilità della struttura (principio già espresso dalla medesima sezione penale, con sentenza n. 31388/2018);

ma che, al contrario, (ii) va riconosciuta laddove esiste:

  • una intrinseca destinazione materiale dell’intervento ad un uso che sia realmente precario, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo;
  • la destinazione dell’opera ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso.

In presenza di queste caratteristiche, allora, l’operatore è libero di realizzare il proprio intervento edilizio “precario” senza necessitare di alcun titolo abilitativo.