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Distanze legali tra edifici derogabili solo per i piani

Qual è la portata concreta della disposizione del Decreto del Fare che consente alle Regioni di derogare il DM 1444/1968 sulle distanze? Lo indica la sentenza di Corte Costituzionale 41/2017 commentata da Guido Inzaghi e Simone Pisani, per il Sole 24 Ore del 29 maggio 2017.

Distanze legali tra edifici derogabili solo per i piani

La Consulta restringe ancora l’autonomia delle Regioni

Le distanze legali tra edifici sono ancora inderogabili. Almeno quando il titolo abilitativo è riferito a edifici singoli. Dopo l’ultima sentenza della Corte Costituzionale (la n. 41 del 24 febbraio 2017) alle Regioni restano pochi margini di autonomia in questo senso, nonostante il dettato letterale del decreto del Fare (Dl 69/2013) sembrasse aver ampliato i loro poteri.

La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge del Veneto 4/2015 nella parte in cui consentiva che lo strumento urbanistico generale derogasse ai limiti di distanza tra edifici di cui al DM 1444/1968 anche nell’ambito di interventi «disciplinati puntualmente».

La pronuncia è in linea, appunto, con una serie di precedenti sorti in relazione all’attuazione da parte delle Regioni delle previsioni di cui all’articolo 2 bis del Testo Unico Edilizia, introdotto con il Dl 69/2013.

Il legislatore, con questo decreto sembrava aver introdotto una significativa innovazione al regime delle distanze in edilizia. Attraverso l’inserimento dell’articolo 2-bis è infatti stato previsto che, ferma la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà, le Regioni e le Province autonome avrebbero potuto prevedere, con proprie leggi e regolamenti, «disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444».

In attuazione di questa norma, alcune Regioni hanno emanato norme di portata ampia che, in concreto, consentivano deroghe alle regole in materia di distanze, sia nell’ambito di interventi assoggettati a pianificazione attuativa, sia nel caso di interventi soggetti ad attuazione diretta, ossia al solo conseguimento del titolo edilizio.

Ma il Governo ha impugnato dinanzi alla Consulta molte di queste norme regionali, contestando la violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e rilevando come le Regioni avessero illegittimamente esteso al caso di interventi su singoli edifici, non oggetto di una più ampia trasformazione urbanistica, la possibilità di derogare alle distanze.

I vincoli della Consulta A fronte di queste contestazioni, la Corte Costituzionale, con la sentenza 41/2017, in linea con i principi già espressi con precedenti pronunce (178/2016; 231/2016), ha ritenuto che anche la legge veneta 4/2015 fosse costituzionalmente illegittima nella parte in cui consentiva che i Comuni, attraverso il proprio strumento urbanistico, introducessero deroghe alle disciplina statale in materia di distanze anche in caso di interventi puntuali e diretti, non inclusi in un piano di attuazione riferito ad un ampio contesto territoriale.

La Corte ha sottolineato che, poiché la disciplina delle distanze attiene in via primaria ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi, non si può dubitare che la stessa rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato.

Gli spazi di deroga residui Nondimeno, la Corte ha rilevato che, quando i fabbricati insistono su un territorio ampio con specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda – e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici, la cui cura è affidata anche alle Regioni perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio.

Alle Regioni è pertanto consentito fissare deroghe alle distanze stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio e, dunque, sempre che la stessa sia riferita ad una pluralità di fabbricati oggetto di una unitaria previsione planovolumetrica, non invece in caso di interventi su un singolo edificio.

Ebbene, alla luce di tale lettura, la portata innovativa dell’articolo 2-bis in materia di distanze viene sensibilmente “svuotata”, in quanto la derogabilità del Dm 1444/1968 torna ad essere, o quantomeno è molto simile a, quella già in origine prevista dal decreto stesso: l’ultimo periodo dell’articolo 9 del DM 1444/1968 difatti stabilisce che «sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».

Se l’originario intento del legislatore era quello di consentire deroghe alle distanze anche in caso di interventi diretti su singoli edifici, subordinati al solo titolo abilitativo edilizio, l’obiettivo per ora è stato quindi mancato. Tenendo conto delle indicazioni della Consulta, il raggiungimento richiederebbe una norma nazionale e che, per garantire equilibrio tra gli interessi in gioco, indichi anche le condizioni che rendono ammissibile la deroga.

Riflessi sul regolamento-tipo

Alla luce della notevole incidenza delle norme in materia di distanze (articolo 9 del DM 1444/1968) e, specificamente, della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti su qualunque intervento edilizio maggiore, la giurisprudenza viene costantemente chiamata a chiarire i rapporti tra la normativa e i regolamenti locali, senza dimenticare che dei princìpi fin qui affermati si dovrà tener conto nell’adeguamento al regolamento-tipo.

Un consolidato indirizzo attesta che non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 1444/1968: quest’ultimo è stato emanato su delega dell’art, 41 – quinquies della L. 1150/1942 e ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni non sono derogabili dagli strumenti urbanistici comunali.

Le norme in materia di distanze, dunque, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili e vincolano i Comuni in sede di formazione degli strumenti urbanistici (Consiglio di Stato, sentenza 3522/2016).

La diretta conseguenza di questo principio è che le previsioni regolamentari in contrasto con questi limiti sono illegittime e devono essere annullate o disapplicate, stante l’automatica sostituzione delle stesse con la previsione legale dettata dalla fonte sovraordinata.

Altri insegnamenti giurisprudenziali in tema di distanze tra pareti finestrate hanno inoltre chiarito che:

  • il dovere di rispettare le distanze sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (Consiglio di Stato, sentenza 856/2016);
  • ai fini dell’operatività della previsione è sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (Consiglio di Stato, sentenza 5557/2013);
  • la norma, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (Consiglio di Stato, sentenza 5759/2011);
  • il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, con esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice (Consiglio di Stato, sentenza 6489/2012).

L’articolo 2-bis del DPR 380/2001 pareva aver introdotto uno snodo utile a consentire un po’ di flessibilità a questo rigido quadro. Ma la Consulta ha chiarito che, in realtà, la disposizione ha semplicemente inserito nel Tu edilizia i principi di vincolatività delle distanze legali stabiliti dal Dm 1444/1968 ed eventuali deroghe sono ammissibili, solo se «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».

I limiti in materia di distanze vanno dunque tenuti in considerazione anche per adeguare i regolamenti edilizi comunali allo schema di regolamento edilizio-tipo (come eventualmente integrato dalle Regioni), approvato con l’intesa di ottobre 2016.

 

I principi della giurisprudenza

L’AUTOMATISMO

Le disposizioni di cui al Dm 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienicosanitarie, sono inderogabili e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici. Ogni previsione regolamentare in contrasto con i limiti minimi è illegittima e va annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata. Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 4 agosto 2016, n. 3522

LE FINESTRE

L’articolo 9 del Dm 2 aprile 1968, n. 1444, in materia di distanze fra fabbricati va interpretata nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso che una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell’edificio preesistente.

Cassazione civile, sezione II, sentenza 28 settembre 2007, n. 20574

LA SOPRAELEVAZIONE

In materia edilizia, la disciplina delle distanze tra costruzioni su fondi finitimi (Dm 1444/1968) è applicabile anche alle sopraelevazioni di edifici preesistenti, le quali rappresentano a tutti gli effetti delle nuove costruzioni, considerato che ogni intervento destinato a creare nuovi volumi deve essere ricondotto al concetto di nuovo edificio.

Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 27 ottobre 2011, n. 5759

LA DISCREZIONALITA’

Le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicare la disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi.

Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 18 dicembre 2012, n. 6489