Pubblichiamo di seguito gli articoli di Carmen Chierchia, apparsi su Il Sole 24 Ore del 27 novembre 2017 sulla recente giurisprudenza relativa alla rideterminazione degli oneri concessori.
Oneri da ricalcolare in caso di errori
Gli oneri di urbanizzazione possono essere restituiti o ricalcolati anche dopo il versamento.
Sia il privato sia il Comune, a certe condizioni, chiedere la restituzione o l’integrazione di quanto versato. È quanto statuito dal Consiglio di Stato con una sentenza (la 4515 del 27 settembre 2017) che ha ricordato come le originarie determinazioni possano sempre essere rivisitate, se affette da errori.
Il contributo concessorio è determinato con deliberazione del Consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che le Regioni definiscono per classi di Comuni.
Per il rilascio di uno specifico permesso di costruire, il computo degli oneri dovuti è effettuato dal Comune che, applicando i coefficienti indicati nella tabella e parametrandoli al progetto presentato dal privato (tipologia di intervento, destinazione d’uso, numero di metri quadrati assentiti),
determina l’ammontare finale del contributo dovuto.
Le correzioni Il Consiglio di Stato ha chiarito che la determinazione comunale che esprime il computo degli oneri «obbedisce a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad applicare detti parametri «e, per questo ne esclude ogni discrezionalità applicativa. La determinazione degli oneri, quindi, è espressione non di un potere autoritativo bensì di un potere paritetico tra Comune e privato. È proprio sulla natura paritetica dell’atto comunale che si fonda il diritto di rideterminazione futura degli oneri: essendo un atto paritetico, l’amministrazione può apportarvi rettifiche. E tali modifiche possono essere sia a favore del privato che dell’ amministrazione.
I tempi Fino a quando l’amministrazione (o il privato) possono richiedere nuovi conteggi? Sul punto la giurisprudenza è chiara: le controversie in materia di determinazione e pagamento degli oneri concessori, investendo l’esistenza o l’entità di una obbligazione legale, concernono diritti soggettivi e rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Per questo, la domanda può essere proposta nel termine della prescrizione ordinaria: dieci anni che decorrono da quando il credito può esser fatto valere, ossia dal momento del rilascio della concessione (Tar Firenze, 14 febbraio 2017 n. 261).
La domanda per chiedere la restituzione o l’integrazione degli oneri viaggia, quindi, su un binario diverso rispetto ai diritti connessi al permesso di costruire: sarà possibile, infatti, proporla anche se non è stata proposta impugnativa del provvedimento impositivo del contributo o del permesso di costruire.
Nella pratica accade che la determinazione del contributo viene resa nota al privato che ha chiesto il titolo edilizio con una comunicazione preventiva, in cui si determina l’importo, si indica la possibilità di rateizzazione e si annuncia che, una volta pagato il contributo (in misura completa o rateizzata), sarà emesso il permesso di costruire. Può, quindi, succedere che, un privato che, attendendo un permesso di costruire, si veda attribuire un contributo di costruzione che non ritiene legittimo, proceda al pagamento, ritiri il permesso e avvii i lavori.
Entro dieci anni dal permesso, poi, potrà sempre proporre la domanda per la restituzione di quanto dovuto (o della parte che non ritiene legittima) senza che possa essergli validamente opposta la mancata impugnativa del permesso di costruire. Stesso principio per i Comuni: possono notificare ai titolari del permesso una nuova comunicazione di correzione dell’importo computato.
Dall’assunto per cui la determinazione del contributo deve necessariamente seguire criteri e limiti determinati dalla legge deriva che la delibera comunale che determina gli importi degli oneri concessori è sottratta all’obbligo di motivazione (Consiglio di Stato, 30 ottobre 2017, n. 4989) e che non sono possibili accordi privati di natura contrattuale volti a disciplinare la definizione pattizia dell’ammontare, in difformità dai canoni di legge (Tar Napoli, n. 4132 del 1° settembre 2016).
Sono esentate le opere pubbliche e in convenzione
pNon tutti i permessi di costruire sono onerosi: il Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) elenca, all’articolo 17, i casi in cui il ritiro del titolo abilitativo è gratuito o è soggetto a pagamento ridotto.
Tra le varie fattispecie, il contributo di costruzione non è dovuto «per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici«. Si tratta di ipotesi che si verificano spesso nella prassi, atteso che a questa previsione normativa sono connesse le attività degli sviluppatori di piani attuativi, dei concessionari pubblici, dei promotori di project financing e, in genere, dei privati che – sostituendosi alla pubblica amministrazione – realizzano opere pubbliche o di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha affinato i criteri selettivi per la verifica dell’appartenenza o meno a questa categoria. Per accedere all’esenzione dal contributo concessorio, infatti, occorrono due profili, uno di carattere oggettivo e uno soggettivo.
Il requisito oggettivo impone di focalizzare l’attenzione sull’opera per cui si richiede il permesso edilizio: questa deve essere esclusivamente finalizzata ad un utilizzo dell’intera collettività; non è sufficiente, quindi, che l’opera sia legata a un interesse generale da un nesso di mera strumentalità (Consiglio di Stato, sentenza 7 luglio 2014, n. 3421).
Più articolata è la disamina di chi è il soggetto che, realizzando opere pubbliche o di interesse pubblico, non sia soggetto al pagamento degli oneri. Certamente, le pubbliche amministrazioni e i privati che realizzano opere di
urbanizzazione. Ma il concetto di “privato” tende ad allargarsi nella lettura giurisprudenziale: si è riconosciuta l’esenzione anche per coloro che realizzano “opere di interesse generale” (non solo opere di urbanizzazione tout court) che, tuttavia, siano legati alla Pa da particolari vincoli contrattuali.
Per l’esenzione, lo strumento contrattuale che lega le parti deve consentire anche formalmente di imputare la realizzazione del bene direttamente all’ente per conto del quale il privato opera (Tar Milano, sentenza n. 1502 del 25 agosto 2016). Tra gli esempi di vincoli contrattuali ricorre certamente la sottoscrizione di una convenzione con la Pa per realizzare infrastrutture pubbliche. La costruzione di queste opere, specialmente se localizzate in zone destinate a servizi pubblici dai piani regolatori, sarebbe normalmente riservata alla mano pubblica e il privato esecutore, in virtù di convenzionamento, diventa un esecutore per conto della Pa, beneficiando, così, dell’esenzione (Tar Firenze, sentenza 2 novembre 2016, n. 1570).
Per gli edifici destinati ad ospitare sedi delle Pa, in alcuni casi i giudici hanno escluso l’esenzione quando il vincolo contrattuale tra Pa e privato consisteva in un contratto di vendita di cosa futura. Questa forma contrattuale, a differenza dell’appalto, non determina un incarico per la realizzazione di un’opera, e quindi
non si realizza la condizione di longa manus che fa sussistere il requisito soggettivo (Consiglio di Stato, sentenza 7 luglio 2014, n. 3421).